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Il “diritto naturale” che risiede nel “vivere la propria stagione nel proprio tempo” è tra le cifre che emergono dalla lettura di Mi salvò l’ala sonora, raccolta d’esordio di Sylvia Pallaracci.
Un diritto esercitato dall’autrice senza mediazioni o sovrastrutture eccedenti di metafore, legato ad un bisogno (percepito) di uscire dalla porta del “qualunque / comunque” per entrare in una casa differente, che sappia dire e spiegare il transito delle sottostagioni ove situare l’esperienza.
È in questo trasloco che il “diritto naturale” si colloca, fra due mo(n)di raccontati da Pallaracci: il corpo nella pratica amorosa (Mi aggrappo al tuo corpo / come a un diritto naturale / e ti provoco l’amore che mi dai) e lo “specchio sul soffitto” (Supplicarti / di sporcare la mia anima senza impronte / del tuo amore maledetto).
La pelle di Eros pare letta e vissuta prima dalla parte del sangue e della carne, poi dalla parte dell’aria, dell’epitelio, dove sembra comparire il desiderio di un “oltre metafisico”… Sporge dal perimetro della scrittura la sensazione che il corpo (il sangue, la carne) sia - in forma di realtà e di simbolo - il tramite per un accesso obbligato ad un “luogo senza misura” […]
Affiora, infine, una ricorrenza dell’estasi amorosa come momento di cambiamento, di vicinanza all’estremo che riporta a tempi del mondo ove le crisi (lat. Crìsis, gr. Krìsis, “momento che separa una maniera di essere da un’altra, differente”) tanta somiglianza avevano con questi giorni nostri (nei quali, come osservato, l’autrice vive con piena consapevolezza).
Mi salvò l’ala sonora, quindi, come libro paradigmatico del proprio tempo, come “libro della crisi”?
dalla prefazione di Augusto Pivanti
Fuggevole
Come l’ago
che imbastiva la trama
e mai bastava a (s)velarci
le parole
mi faccio piccola
perché tu abbia ora paura
a smarrirmi
perché quando entravi tutto
nel mio ventre
ti era difficile immaginarmi
altrove
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