Quando il tempo era vivo
e potevo toccarlo
con dita profumate di bimba
non respirando ancora
quel suo aroma amaro,
quando poi mi baciò
fra i capelli e sulla pelle
facendomi donna,
facendomi dea
di giovinezza immortale,
lì eri tu
come un veliero
sospeso sopra il mare,
uno squarcio ferito di vento
che scioglieva il dolore
a ricordarmi chi ero
al di fuori di me,
immersa tutta nel mondo
che copriva il silenzio.
E di ogni cosa sentii finalmente il sapore.
Ti sfiorai, vaga e indistinta
- visione intatta dell’anima -
pietra, raggio di luce e follia:
la percezione incerta di esistere
in bilico sul filo, per amare.
Il tempo correva
tra le braccia del caos,
ma non avrei sprecato
la domanda muta d’incoscienza
che sgorgava linfa dolce dalle vene,
il dubbio aperto fra le cosce,
l’errore che rinasce
in estasi fuggevoli di nulla
sul fondo del bicchiere vuoto
a dissetarmi, ancora e ancora...
Così d’un tratto
mi voltai di spalle
e diventai l’esatto specchio del mio dire,
- ciò che ora più mi segna
in solchi gravi, nuda creta -
la carne, il sangue, il senso
del mio infinito andare
a occhi chiusi
come un cieco
nella vita.
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